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«A Renzi interessano più gli annunci che la sostanza. Ma almeno ha fatto vedere che la Cgil è una tigre di carta»

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Firma dell'accordo per Electrolux a Palazzo ChigiIl merito di Renzi sull’articolo 18 è quello di aver fatto in modo che la sinistra potesse almeno cominciare a discutere di modifiche a una norma scritta ormai negli anni Settanta. Superando, di fatto, quello che per anni ha rappresentato un argomento tabù per la «sinistra conservatrice» e la Cgil. Ne è convinto l’esperto di lavoro e previdenza Giuliano Cazzola, che a tempi.it spiega luci ed ombre della riunione della direzione Pd di lunedì scorso su articolo 18 e Jobs Act.

Cazzola, come mai l’articolo 18 non è stato abolito, ma rimarrà in vigore per i licenziamenti disciplinari, con il rischio che a decidere le sorti delle imprese italiane possano essere ancora una volta i giudici?
Il motivo non è mai uno solo. A mio avviso, la spiegazione prevalente è di natura politica. A Renzi, infatti, del merito importa poco o nulla. Da questo punto di vista, si può dire che il premier è un po’ come Silvio Berlusconi: gli interessa soprattutto che le cose siano annunciate in televisione. Ed è abile a prendere per il naso i media, per i quali, però, ci voleva poco a fare una constatazione banale.

Quale?
Dove stavano scritte, mi domando, nell’articolo 4 della delega sul lavoro le intenzioni che Renzi dichiarava nelle interviste per il superamento dell’articolo 18? È mai possibile che in una decina di parole («contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio») fossero inclusi i principi e i criteri direttivi richiesti dall’articolo 76 della Costituzione per esercizio della funzione delegata? Arrivato in direzione Pd, la concessione – del tutto gratuita – della possibilità di reintegra anche nel licenziamento disciplinare gli è servita per spaccare il fronte dell’opposizione interna. Solo che, così, sull’articolo 18 si è tornati a quanto già previsto dalla legge Fornero.

Se è vero che Renzi gode di una maggioranza pari all’80 per cento all’interno del suo partito, come ha scritto il Corriere della Sera, perché il premier non ha almeno provato a superare l’articolo 18?
Di Matteo Renzi, del suo Governo e della sua azione politica si può pensare tutto il male possibile – e chi parla non appartiene certamente al club dei suoi estimatori – ma un merito gli va pur riconosciuto: è quello di indurre i propri avversari ad arretrare precipitosamente rispetto alle posizioni sostenute e difese con ostinazione per decenni. È quello che è successo in materia di lavoro già in occasione del decreto Poletti sui contratti a termine e l’apprendistato. La sinistra del Pd e la Cgil hanno lasciato passare – soprattutto in tema di rapporto a tempo determinato – una modifica che ha reso strutturale uno strumento di flessibilità molto importante. E in questi giorni, per quanto concerne le norme sui licenziamenti, a partire dalla riunione della direzione del Pd, saranno avanzate controproposte (rispetto a quelle annunciate dal premier) che fino a pochi mesi or sono sarebbero state respinte, con sdegno, dai loro stessi autori. Analoghe considerazioni potrebbero essere svolte a proposito delle “disponibilità” manifestate dalla Cgil. In sostanza, agli oppositori interni di Renzi e al segretario generale della Cgil Susanna Camusso basterebbe che la reintegra non venisse bandita – salvo che per il recesso inficiato da motivi nulli o discriminatori – dal novero delle sanzioni contro il licenziamento individuale ritenuto illegittimo, ma che fosse ancora prevista dopo un certo numero di anni di anzianità di servizio, nell’ambito del percorso della tutela crescente. A prescindere dal merito (invero discutibile), è indubbio riscontare delle novità in tale posizione politica. Questo fatto, almeno, pone ai commentatori di “storie italiane” una domanda: perché oggi è divenuto all’improvviso possibile confrontarsi (se il Governo lo vorrà) su materie che fino a ieri erano ritenute inderogabili, indisponibili, non negoziabili, sacre alla Patria come il fiume Piave?

Susanna Camusso ospite di Porta a Porta

Secondo lei perché?
O si è verificata un’improvvisa maturazione notturna dei gruppi dirigenti, oppure gli esecutivi precedenti sono stati grandi dissipatori di consenso, incapaci di comprendere che l’innovazione covava sotto la cenere e che occorreva soltanto avere il coraggio di alimentarne la debole fiammella. Oppure, più banalmente, Renzi sta dimostrando, una volta di più, che la sinistra conservatrice e la Cgil sono solo delle “tigri di carta”. È sufficiente, in pratica, sfidarle per accorgersi che non ruggiscono, non graffiano e non mordono.

Il Parlamento abolirà l’articolo 18?
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano il Nuovo centrodestra e il mio amico Maurizio Sacconi, che, forse, avrebbe fatto meglio ad aspettare, prima di cantare vittoria così presto. Ma visto che a Renzi si permette di tutto, non è il caso di nutrire speranze.

A tenere banco nelle ultime ore, oltre alla discussione sull’articolo 18, c’è stata anche la proposta di anticipare il Tfr in busta paga per spingere in consumi, sulla falsariga di quanto auspicato potesse già accadere con il bonus di 80 euro. Crede che si tratti di un’ipotesi credibile?
Il Tfr è una risorsa troppo importante per l’autofinanziamento delle imprese e per le esigenze fondamentali dei lavoratori per essere gettato nella mischia della vita quotidiana. Le imprese che occupano 50 e più dipendenti, oltretutto, sono già tenute a versare, ogni anno, circa 6 miliardi (a tanto ammontano le quote di Tfr non utilizzato dai dipendenti per finalità di previdenza complementare) al cosiddetto Fondo Tesoro gestito dall’Inps. Il Tfr, poi, è la principale fonte di finanziamento della previdenza privata che ha una funzione strategica nel garantire una maggiore adeguatezza per i trattamenti pensionistici. Inoltre, sono già consentite significative anticipazioni degli accantonamenti (anche di quelli detenuti nelle posizioni individuali dei fondi pensione) allo scopo di poter sostenere delle spese cruciali nella vita di una persona e della sua famiglia, come le cure sanitarie o l’acquisto di un’abitazione. Siamo così sicuri, mi domando, che le somme di trattamento di fine rapporto, finite ad incrementare le buste paga, saranno davvero indirizzate ai consumi e non al risparmio? Il fatto che in questi sette anni di crisi la liquidità e i depositi bancari degli italiani siano aumentati di 234 miliardi avrà pure un significato. Insomma, se vogliamo parlar chiaro, penso che mettere il Tfr in busta paga ai dipendenti sarebbe come voler usare delle banconote da 100 euro al posto della carta igienica.


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