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Angelo Scola: Te Deum laudamus perché sei con noi

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Come da tradizione, anche nel 2014 l’ultimo numero del settimanale Tempi è interamente dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso firmati da diverse personalità del panorama sociale, culturale e civile italiano e non solo. Nella rivista che resterà in edicola per due settimane a partire dal 31 dicembre, troverete, tra gli altri, i contributi di Angelo Scola, Asia Bibi, Louis Raphaël I Sako, Fausto Bertinotti, Luigi Amicone, Renato Farina, Mattia Feltri, Fred Perri, Aldo Trento, Pippo Corigliano, Annalisa Teggi, Alessandra Kustermann, Mario Tuti.

angelo-scola-flickr-02Pubblichiamo qui il “Te Deum” del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano.

Anche quest’anno può essere chiuso con il grande verso del poeta Claudel, per cui «la pace, chi la conosce, sa che gioia e dolore in parti uguali la compongono». Potrebbe sembrare un’osservazione a prima vista banale e scontata. Però, in questo inizio del terzo millennio, questo intreccio di gioia e di dolore, di speranza e di angoscia si impone ed ha assunto una dimensione insistente, quotidiana. Siamo forse in grado di dare una prima valutazione, anche se del tutto provvisoria, dell’ingenuità con cui il nostro mondo opulento, che alla caduta dei muri era perfino arrivato a parlare di “fine della storia”, ha elaborato la pretesa di dominare il futuro. Come se noi, poveri uomini, fossimo capaci di progettare il domani, non solo individuando orientamenti e sentieri sui quali inoltrarci, ma addirittura dominandolo in tutte le sue articolazioni. L’idea del progresso ineluttabile, testarda nel suo continuo ripresentarsi, ancora una volta è stata messa radicalmente in crisi.

Dentro questo travaglio siamo come degli sbandati. O dei naufraghi in preda alla tempesta. O dei pugili suonati sul ring. Esseri che stanno tentando di ricentrare il proprio io e le relazioni che ne conseguono – e vorrei che non ne perdessero la forza e il coraggio – sul grande asse della libertà e del senso. Laddove “senso” indica sempre “significato e direzione” e “libertà” resta inesorabilmente il fattore emblematico, di tutto l’uomo.

Allora la domanda diventa questa: dove l’uomo del terzo millennio, posto di fronte alle strabilianti scoperte scientifiche o interrogato dalla necessità di affrontare la geopolitica in termini diversi, di pensare a un nuovo ordine mondiale, può ritrovare libertà e senso del vivere? Dove può rigenerarsi sperimentando una liberazione che sia veramente tale? E dove può trovare un senso, una ragione, per ripartire tutte le mattine, e un sentiero, una direzione, su cui incamminarsi?

Lodare Dio alla fine di un anno resta più che mai la grande condizione per ricalibrare questi due grandi poli del nostro vivere. Da questo punto di vista, avvento del Natale e ringraziamento a Dio, restano inseparabili.

Beatificazione: Messa di ringraziamento in San Paolo fuori le muraSi affaccia però, incalzante, un’altra domanda: quale gratitudine possono esprimere coloro i quali per povertà estrema – abbiamo visto in tante zone di quartieri periferici – sono spinti ad occupare le case, o gli homeless, che sono sempre più numerosi, o i disperati, relegati sempre più ai margini della società? Visitando il Policlinico di Milano sono venuto a conoscenza di una bella iniziativa: negli spazi esterni dell’ospedale verranno allestite delle strutture in grado di offrire un rifugio più ordinato e dignitoso ai senza tetto che normalmente dormono lì. Ma l’interrogativo di fondo rimane: su cosa possono fare leva per ringraziare Dio i nullatenenti, i giovani scoraggiati e ridotti all’inerzia dalla mancanza di lavoro, gli uomini e le donne di mezza età che si trovano espulsi dal circuito produttivo? Come possono ringraziare Dio i figli costretti a fare i conti con il fallimento del matrimonio del papà e della mamma, le tante famiglie ferite da prove pesanti e spesso affrontate in solitudine, le vittime che invocano giustizia?

L’ingresso dell’Eterno nel tempo
Troppe le questioni ancora aperte che sembrano spegnere la nostra gratitudine: come promuovere la vita dal concepimento fino alla morte naturale? Come affrontare la tragedia dei fondamentalismi barbarici, come trovare la strada dell’ascolto reciproco, della conoscenza, del dialogo con gli islam, con le altre religioni, come collaborare all’edificazione di una società plurale, aperti all’ascolto e tesi a una edificazione comune? Come lavorare perché Milano metropolitana, che coincide almeno con tutte le terre ambrosiane, superi meccanismi e dinamismi di eccessiva frammentazione e si apra alla costruzione di un’amicizia civica?

angelo-scola-flickr-04Le domande si accavallano, inarrestabili, nella nostra mente. Per non parlare degli interrogativi sulla debolezza della politica, sul futuro del nostro paese, sulle scelte che dovranno essere fatte, sulla capacità di valorizzare i corpi intermedi della nostra ricca società civile, sul perseguire libertà realizzate. Tutto questo domandare si potrebbe riassumere nei richiami più insistenti che Papa Francesco ci sta facendo in termini esemplari e di testimonianza diretta. Lui che parla soprattutto attraverso i gesti.

Soffermiamoci un istante su di un dato imponente che può essere compreso da tutti, anche da quanti non praticano. Un dato portato alla luce proprio dalla struttura della liturgia ambrosiana dell’Avvento. La sua forza sta nel non separare l’attesa della venuta di Gesù nella carne, dall’attesa della Sua manifestazione gloriosa alla fine dei tempi. Ciò comporta – ecco che il primo pilastro ritorna – la mossa della libertà che si apre a fare spazio a questo Evento. E lo fa perché da una parte percepisce in mille forme, dirette e indirette, che privata della sua “capacità” di infinito la libertà sarebbe frustrata e, dall’altra, si scontra col fatto che questo infinito non se lo può dare da sé. E si illude di poter sostituire l’infinito con una serie indefinita di piaceri. Ma il piacere non ha nulla a che vedere con il gaudio. Il gaudio è definitivo, stabile, sorgente inesauribile di letizia. Il piacere è sempre effimero, puntuale, limitato nel tempo. Non è moltiplicando indefinitamente i piaceri che si può raggiungere il gaudio.

Scola presiede il Pontificale dell'ImmacolataLa venuta del Signore segna l’ingresso nel tempo dell’Eterno che offre alla libertà la possibilità di assumere la totalità della realtà. La totalità della realtà non è soltanto la nostra contingenza (che sarebbe pura caducità, sarebbe un finire nel nulla). La realtà, invece, è Cristo – come dice San Paolo –, il figlio di Dio che diventa uno come noi, che prende sulle sue spalle il cammino storico di ciascuno di noi. Come ci ricorda il Concilio, Cristo è la silhouette, è la forma, è la figura, è lo schizzo della libertà singolare di ogni uomo. Per questo lodiamo Dio, perché al di là delle contingenze, al di là delle circostanze favorevoli o sfavorevoli – e molte lo sono –, al di là dei rapporti che possono generare solidarietà o rottura – c’è la gratuita permanenza del Dio vicino, del Dio con noi che mettendo per primo al centro l’uomo, ci consente di generare un nuovo umanesimo. “Nuovo” non perché insegue astrattamente l’inedito, “nuovo” perché provoca la libertà di ciascuno ad affrontare il quotidiano secondo tutta l’interezza dell’esistente il cui pro-tagonista è Dio stesso. Dio in quanto incarnato. Dio che si fa uomo. Non a caso la Chiesa in questo tempo ci presenta continuamente la figura della Vergine. In Lei si vede che il gioco della libertà e del senso, cioè la sua disponibilità ad accogliere Dio che si fa bambino, compiono l’umano.

Il fascino del bell’amore
Da qui risorge per l’uomo il fascino del bell’amore, accettando che l’amore tra l’uomo e la donna sia connotato dell’espansione appassionata dell’io come capacità di volere il dovere di affermare il bene dell’altro nel “per sempre” e nell’apertura alla vita, di cui noi tutti sentiamo il bisogno. Il gelo demografico di questo paese è spaventoso non meno di talune soluzioni che si prospettano (penso all’eterologa o all’utero in affitto). Le ferite che esse infliggono alla filiazione, producendo di fatto orfani di genitori vivi, sono foriere di gravissimi pericoli per l’umanità. Mi appare più urgente che mai la riscoperta della bellezza di un amore che sia dono effettivo e dono ragionevole. Rimobilita la ragione per cui noi ogni mattina ricominciamo l’impresa del vivere e sentiamo la ferita per quelli che la ragione credono di non averla, per quelli che la perdono, per quelli che non la percepiscono in termini adeguati. Nello stesso tempo, questa rinata affezione dà speranza di costruzione perché dà contenuto all’esistere. Cose analoghe si potrebbero dire degli altri fondamentali della vita.

Celebrata in Duomo la prima domenica di QuaresimaForse si potrebbe aggiungere qualcosa in particolare per Milano che ha davanti la grande occasione dell’Expo. Un evento che necessita non solo di preparativi ed allestimenti adeguati – sfida a cui senza dubbio l’abilità italiana saprà ben corrispondere – ma di un confronto tra diverse visioni del mondo.

«Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita»: Expo 2015 non può ridursi ad una sorta di fiera degli alimenti, ma deve avere il coraggio di affrontare tutta la problematica della nutrizione – da quella degli Ogm a quella drammatica della fame nel mondo, fino a tematizzare le questioni della libertà e del senso che si concentrano nell’affermazione: “Non di solo pane vive l’uomo” –. E qui ritorniamo al punto da cui siamo partiti, cioè alla dimensione dell’eterno già storicamente in atto. È l’apporto della fede cristiana, che ci offre una speranza affidabile per cui possiamo lodare Dio. Il “non di solo pane vive l’uomo” viene a galla come criterio per orientare l’uso del pane. Anche per affermare un’ecologia del rapporto con il cibo, con le creature e con il creato, serve un’ecologia umana.

L’esigenza di ritrovare “l’anima di Milano”
L’Expo è parte di questa sfida verso un “nuovo umanesimo”, verso il ricentrarsi dell’uomo sulla libertà come capacità di infinito e sul “senso” come compagnia presente del Dio bambino, del Dio Risorto, che è venuto, viene e verrà come giudice della storia.

Tutto questo è il fattore unitario che ho chiamato “anima”. Anima di cui anche Milano ha bisogno. Nelle persone e nelle realtà che ho incontrato in questo mese in città ho toccato con mano molti frammenti di umanità pieni di significato, ma al tempo stesso ho percepito un certo venir meno del principio dell’unità. Per questo ho parlato dell’esigenza di ritrovare “l’anima di Milano”. Ci sono realtà molto significative in città. Basti pensare allo sterminato mondo della condivisione del bisogno che impegna cattolici e non cattolici. O alla realtà di università e centri di ricerca che spesso, proprio perché sono luoghi di eccellenza, attirano studenti da tutto il mondo. Ci sono svariatissime espressioni culturali in sé molto affascinanti. Eppure, manca una cultura unitaria. Ora, ciò che fa l’unità è appunto una libertà che si gioca con il senso. Da questo punto di vista il terreno su cui può fiorire un dialogo fecondo è una comune cultura radicata nell’esperienza – come diceva san Giovanni Paolo II all’Unesco – appassionatamente cercata da parte di tutti e bisognosa di un’amicizia civica “a priori”.


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